Bergamo, con Dell’Agnello non è mai troppo tardi. “E non è detto sia finita qui”

Con Sandro Dell’Agnello non è davvero mai troppo tardi. Per smettere di giocare ha deciso che prima dei 44 anni non fosse ancora il caso. E quest’anno, da allenatore di Bergamo, a fine maggio c’è ancora tanta voglia di restare sul campo. Quando l’obiettivo, in realtà, era farlo fino al 20 aprile “… perché eravamo dati tra le cinque più deboli del girone Ovest e per questo a noi sarebbe andato bene salvarci evitando i playout”.

Invece sabato gioca gara1 di semifinale, contro Capo d’Orlando, testa di serie numero uno ad Ovest. Ed una Bergamo Basket testa di serie di un po’ tutto il resto. Potrebbe bastare questa analisi: per 4 giornate prima, per altre 14 seconda, per altre 9 tra le terze. Fanno 27 turni vissuti ad alta quota. Ben oltre l’exploit.

“E’ stata una stagione di grandi soddisfazioni. Al di là dei risultati, che tutti vedono e sanno leggere, ho avuto un gruppo vero di giocatori, alcuni alla prima esperienza in quintetto oppure con tanti minuti sul campo. Siamo questi, nulla di più e nulla di meno, andiamo in campo e giochiamo, sempre alti in classifica e senza mollare mai, sempre tra le prime quattro senza sbandamenti. Pure se nei playoff ti ritrovi privo dei 17 punti di un americano. Evidentemente c'era dell'altro”.

In semifinale siete arrivati senza Brandon Taylor, e grazie all’ultima difesa che he negato il tiro che Montegranaro cercava. Alla nona partita di playoff, dopo 360 minuti di battaglia, prima contro Mantova e poi con la Poderosa.
“E’ motivo di grande orgoglio per un allenatore il saper essere competitivo pure mostrando volti diversi. Passando da Mantova a Montegranaro il volto tattico delle serie è cambiato radicalmente, lo abbiamo fatto anche noi, anche se dopo 3-4 partite c’è poco da sorprendere. Se non che noi avevamo fuori uno dei nostri leader”.

Avete appena stoppato quella che è stata per cinque mesi, record alla mano, la miglior squadra della A2. Ma del resto lei di stoppate se ne intende. Anzi, ci ha costruito una carriera.
“Confermo che quando in quell’amichevole dell’82 stoppai Moses Malone, io giocavo a basket da poco (ragazzotto di neanche 21 anni) e non sapevo chi fosse. Non guardavo l’NBA. Per me era uno che passava dalle mie parti... In carriera mi ha sempre guidato il senso di sfida, la competizione. E l’obiettivo di vincere. Ho due figli ormai grandi, credo che assieme collezionino il minor numero di successi giocando contro il padre… Di farli vincere non mi veniva proprio”.

Michael Jordan però lei sapeva chi fosse, a Bormio, qualche anno dopo.
“Sì, lui sì. Lo marcavo, mi fece palleggio, arresto e tiro davanti. E lo stoppai. Della mia carriera non ho conservato praticamente nulla, se non quella foto”.

E’ successo più volte che un giovane giocatore venisse instradato alla carriera da allenatore da chi se lo ritrovava in palestra, e lo vedeva più pensatore di basket che esecutore di schemi. Lei ha vinto un argento Europeo con la Nazionale, tra i soprannomi “El Tigre” e Sandrokan. E di conseguenza nessuno si è mai degnato di dirle di smettere… Scelta personale, quindi. Nata come?
“Ponderata. Attorno ai 30 anni mi sono ritrovato ad essere molto attento a quello che succedeva in campo. Ho iniziato a scrivere appunti e riempire quaderni. Maturando il desiderio non solo di guidare giocatori, che poi sono un gruppo di persone. E non solo tatticamente, ma anche come teste. L’ennesima sfida. Se come giocatore ho finito abbastanza in là, come allenatore sono ancora giovane ed ho energia a sufficienza”.

Allena una squadra che ha saputo vincere a 90 punti (nota: in stagione 90-89 a Capo d’Orlando) così come tenendo le avversarie a 60 (nota-bis: tra queste la Virtus Roma). Con tanti volti diversi. In fondo è la sua storia da giocatore, nato come difensore ma segnando pure 30 punti in una finale scudetto, vinta.
“Il Dell’Agnello giocatore ha una storia un po’ originale, perché ho iniziato a 17 anni ed a 18 debuttato in… Promozione. Iniziando da centro, utilizzato pure da guardia da Tanjevic a Caserta. E quindi finire nei due ruoli di ala. La mia filosofia è sempre stata provare a fare ciò che serviva alla squadra. E mi riusciva. Difensore, vero, ma anche 21 stagioni in A in doppia cifra di media. Diceva Boscia: “I giocatori di basket si dividono in due categorie, quelli esterni, che guardano il canestro, e quelli interni che ce l’hanno alle spalle”.

Perché Livorno produce a catena allenatori?
“Allenatori ed arbitri. Ci troviamo sui campi, ce lo chiediamo, ma non ne veniamo fuori. Io dico che il livornese è un po’ presuntuoso. Che non è un pregio. Però a noi piace spiegarla. E l’allenatore, in fondo, la spiega”.

Inizia in panchina nel 2004, nel 2008 è già allenatore dell’anno in Legadue, con la sua Livorno. Con tante similitudini con l’oggi, a Bergamo.
“Alla prima stagione da capo, dopo tre da vice. Vero, anche quella fu annata di grandi economie, con tanti giovani, partiti per salvarci e finendo per fare i playoff”.

Dell’Agnello, ma lei ama così tanto il rischio?
“Mi imputo il fatto di aver accettato troppe volte situazioni complesse, con pochi soldi e roster inadeguati. Pagandolo sulla mia pelle, con due esoneri. Avrei dovuto dire di no più spesso, ma poi fai fatica a stare sul divano”.

E’ accaduto così anche con la chiamata di Bergamo?
“Mi piace lavorare, e non credo sia un difetto. Era luglio, già un po’ in là, ed ero sul divano. Mi sono trovato con Valeriano D’Orta, abbiamo messo tutto sul tavolo e ci siamo buttati”.

Quale è il suo modo di intendere la professione di allenatore?
“L’allenatore è un bel parafulmine per tante situazioni. La crisi economica ha reso le Società meno strutturate, senza volerne fare una colpa ma è una chiara involuzione. Oggi negli organigrammi abbondano figli, cugini, cognati e generi, in alcuni casi validi, ma in altri meno. “Si dà tutti una mano” ed è apprezzabile, ma a questi livelli serve maggiore professionalità. L’allenatore è un riferimento per tutti, ma senza che questo gli venga riconosciuto. Ed in più troppo spesso vittima di giudizi superficiali e sommari”.

Fino allo scorso settembre Benvenuti era un puglie del passato ed un grande allenatore, Gianfranco, livornese d'adozione. Ora c'è anche Lorenzo, uno dei lunghi più interessanti di questo campionato, 24 anni, 2.04, ed un futuro che potrebbe essere importante.
“Per iniziare è un ragazzo d’oro, uno a posto. E si pone bene. E’ diventato sempre più affidabile e consistente. Capisce di tattica, sa darti la cosa giusta al momento giusto. Una dote rara. L’ho messo sempre più fronte canestro, oggi si gioca per aprire il campo. Dall’Eurolega in giù, se non hai Shaquille O'Neal, i centri veri i finali li vedono dalla panchina…”.

Non solo Benvenuti: il vostro reparto lunghi lo completano Fattori e Zucca.
“Sono stati bravi a stare nel ruolo che è stato costruito loro ad agosto sulla carta. Per poi ricoprirlo sul campo, che è la parte più difficile. I giocatori hanno tutti gli stessi doveri, ma non gli stessi diritti. Il tiratore ha il diritto di tirare; il non tiratore ha il dovere di non tirare ed il diritto di mostrare ciò che sa fare, in cui è solido”.

Chi è Terrence Roderick? Questo campionato dice: un fenomeno. Il suo percorso però, accidentato, racconta altro.
“Ha avuto responsabilità sue nel farsi un nome non affidabile da giovane. Ma non sta a me dire il perché. L’ho avuto a Forlì sei anni fa, oggi dico che è molto maturato. In capo è geniale, capisce il gioco come pochi, è un giocatore di basket a 360 gradi. Ma la dote migliore è che sa far crescere il rendimento dei compagni. I numeri poi sono pubblici. Come i difetti”.

Ma un Roderick a livello più alto?
“Ci può stare, certo. Ha 30 anni, piena maturità, molto sicuro di sé. Certo, gli piace gestire i palloni e, fosse possibile, giocherebbe 41 minuti a partita. Terrence è fatto per giocare a pallacanestro. La difesa? La capisce, e c’è più di quanto si tende a pensare di lui”.

Quella di Bergamo è una storia di sport: il budget è importante, ma non è tutto.
“Vanno fatti dei distinguo. Primo, un grazie ai dirigenti del Club: facile applaudirli oggi, ma non vanno dimenticati i grandi sacrifici fatti in estate per salvare il titolo di A2. Con quello che avevamo a disposizione abbiamo corso dei rischi, era inevitabile, e senza avere un margine di errore. Quest’anno è andata non bene, ma benissimo. Sbagli un giocatore, uno si fa male, si perde e la favola è finita”.

Il pubblico: cresciuto e costruito anche lì.
“Bergamo è una città fantastica, vivibile e con l’Atalanta. Abbiamo iniziato con 700 spettatori. Con i risultati sono arrivati e si sono scaldati. Fino ad un pieno. Un po’ d’orgoglio anche per questo concedetemelo, a me ed ai miei ragazzi”.

Brandon Taylor è pronto?
“La frattura si è saldata, quindi contiamo di recuperarlo per la serie, ma non so per quale partita. Come è arrivato? Guardando le statistiche di campionati di livello inferiore, poi qualche video, ho parlato con chi lo conosce. E’ un ragazzo molto competitivo, serio, più maturo dell’età che ha (25). Capisce il gioco, si fa allenare. Gioca con i compagni. E quando serve fa canestro”.

Che idea si è fatto di Capo d’Orlando?
“Un quintetto molto forte, forse il più forte del campionato, nulla meno di Treviso. Nella sfortuna di aver perso Lucarelli, con Joe Trapani si sono rinforzati, per la A2 è un giocatore di altissimo livello. Bruttini è il miglior centro del campionato, gli americani sono dominanti nei ruoli”.

La vostra stagione appare simile a quella di Agrigento, anno 2014-2015, arrivando in finale contro Torino.
“Se arrivo anche io in finale ricorderò la similitudine. Non siamo stati pensati per questi livelli, avremmo stappato al solo evitare i playout, con cinque retrocessioni. Ora però ci sentiamo capaci di tutto”.

La sua a Bergamo è una stagione alla Sinisa Mihajlovic a Bologna. Non viene voglia di ringraziare e, dopo aver dato tanto, monetizzare?
“E’ la vita dell’allenatore, sfruttare l’occasione. Perché quando poi fai male, sei il primo che paga. A Bergamo sto benissimo, poi tutti sanno che il mio desiderio è da sempre salire di livello. Vedremo cosa succederà. Dico una una frase che non è di circostanza, non ce le ho nelle corde: sono incredbilmente contento di viaggiare con Bergamo verso Capo d’Orlando. E la storia della nostra stagione potrebbe dire che magari non è l’ultima tappa”.

Stefano Valenti
Area Comunicazione LNP