Giancarlo Sacco, Bergamo ha il suo Dottor House

Giancarlo Sacco è un po’ il Dottor House della pallacanestro italiana. Non tutti gli interventi gli sono riusciti perfettamente, come capita nella professione di medico. Ma in quanto a pazienti trattati, ha forse il record di guarigioni portate a termine. La più recente è Recanati nel 2016, a spese della Virtus Roma nel primo turno dei playout: ed occhio perché la rotta di collisione potrebbe replicarsi. Ma prima c’erano state Casalpusterlengo nel 2011,  Rimini nel 2009 (da ultima ai playoff) e Pavia nel 2007 (da tredicesima alla finale playoff). Ora ci riprova con Bergamo.

In fondo tutto iniziò allo stesso modo, nel 1984, nella sua Pesaro che sbandava sotto la guida Casey-Bisacca e non era lecito con Gracis, Costa, Magnifico, Silvester, Zampolini, Frederick, Tillis. E allora gliela affidarono, a 27 anni, per condurre la Scavolini non solo alla salvezza, ma alla finale per lo scudetto contro l’inarrivabile Milano di Dan Peterson, D’Antoni, Meneghin e Barry Carroll.

“L’etichetta di numero uno degli allenatori SOS mi arrivò da Peterson stesso, ed a me ha sempre gratificato” racconta Sacco, che ha condotto Bergamo, matricola in affanno, ad un marzo intonso da 4 vittorie su 4 gare. Un record che gli ha consegnato il titolo di allenatore del mese ad Est. Riportando fiducia nella salvezza, in città e tra i tifosi, visti i quasi 1900 spettatori della sfida diretta con Orzinuovi.

- Sacco, quali sono gli strumenti per intervenire sul malato?
“Passione ed entusiasmo. Professionalmente è molto interessante il dover ricaricare e motivare una squadra, iniziando solitamente con non più di due-tre giorni veri di lavoro, prima del debutto”.

- La chiama Bergamo, distogliendola da quali attività?
“Stavo coltivando la terra ed i miei ulivi, che producono olio buono. A Gradara, dove vivo e che ha appena vinto il titolo di “Borgo dei Borghi”. Un bel posto, insomma”.

- Però c’è l’astinenza da panchina.
“In realtà non la soffro e per questo mi sento una mosca bianca. Più semplicemente adoro questo sport e questo lavoro, ed ancora ora mi diverto come un pazzo. Ma nessuna ansia da astinenza, pure se quando parlo con colleghi o gli agenti so bene che esiste. Se mi chiamano sono felice e contento, se non alleno sto bene ugualmente”.

- Arriva a Bergamo e cosa trova?
“Un bell’ambiente. La Società con Bartocci, uno staff tecnico preparato, lo spogliatoio. Grande disponibilità e accoglienza, pur venendo a sostituire un collega che era un’istituzione, apprezzato e che aveva fatto un ottimo lavoro. Ho ereditato una squadra priva di conflittualità interne, quindi una situazione ottimale”.

- Quale il male, allora?
“Il peso delle sconfitte e teste un po’ piene di tante cose. Le ho alleggerite, lavorando su attenzione e concentrazione. La risposta è stata immediata. Pensare solo ad allenarci bene, per giocare a pallacanestro”.

- Teste sgombre. E’ così che si va a Montegranaro, senza Ferri, e ad Udine, senza Hollis, e si vince su campi di due squadre da playoff?
“Credo sia il nostro manifesto. Loro non c’erano, ma noi non ce ne siamo accorti”.

- Ci si accorge invece che Solano ed Hollis hanno elevato il loro rendimento.
“Due bravi ragazzi, disponibili. Hollis è più navigato, un giocatore totale. Solano è più acerbo, sta uscendo adesso, ha potenzialità. E’ arrivato da una realtà dove “hai perso?… Nessun problema”. Ecco, da noi è diverso”.

- Un’addizione italiana importante, Marco Laganà, 25enne talentuoso quanto sfortunato proprio quando la A2, a Biella, lo aveva messo in rampa di lancio.
“Uno di talento vero, e con la capacità di metterlo sul parquet, che non è da tutti. L’obiettivo è non disperdere quel talento da playmaker e stiamo lavorando su ciò che un  playmaker deve essere: concentrato, attento, nella posizione più bella del basket. Gli abbiamo dato un ruolo e non un parcheggio. In più ha le palle”.

- Un ruolo dove peraltro Bergamo aveva già un italiano importante e navigato, Michele Ferri, pesarese come lei.
“Ci siamo capiti subito, perché parliamo la stessa lingua... Ma non avevo dubbi, Michele è una persona intelligente. Tutti hanno un ruolo e responsabilità, in minutaggi giusti per esprimerli al meglio. L’etichetta di titolari e panchina è decisamente demodè”.

- Le piace questo 8+2?
“Rende il nostro ruolo più piacevole. Dai un’identità alla squadra. In A2 vedi giocare Treviso o Ravenna e dici “sono le squadre di Pillastrini e Martino”. E questo piace anche alla gente. Qui c’è affezione. Ma la vedo anche in qualche realtà di A, come Brescia e Trento, o la Varese di oggi”.

- Lei come Piero Bucchi, chiamato a salvare la Virtus Roma.
“E’ un argomento generazionale. Se devo pensare a Bucchi, Scariolo, Messina, Pancotto, penso a quando l’allenatore allenava e non doveva fare altro. Io ho debuttato in A a 27 anni e non mi preoccupavo del fatto che “non dovevo rompere le palle”. Il nostro credo era prendere una squadra a settembre e lasciarla a giugno migliorata e di conseguenza più forte. Oggi la filosofia è sfruttare ciò che si ha”.

- In A2, quest’anno, ben sette assistenti promossi.
“E’ iniziata così anche per me, oggi forse incide di più il fattore economico. Penso però che, ai tempi, proprietari e manager come Bulgheroni, Scavolini, Prandi, Allievi fossero veri conoscitori del ruolo degli allenatori e di cosa un allenatore poteva valorizzare del capitale. Ora l’allenatore è una spesa”.

- Salvati o fregati, dalla Bosman?
“Alcuni salvati dai cambi in corsa, che hanno raddrizzato una stagione. Però quando c’erano i cartellini, ed il giocatore migliorato a fine stagione valeva più soldi di quanti erano all’inizio dell’anno, ecco, questo dava un valore tangibile al lavoro degli allenatori”.

- Cosa serve per convincerla a tornare ad allenare a tempo pieno?
“Un buon stipendio, per poi far risparmiare durante l’anno, cosa in cui credo. Alla fine spesso le Società spendono di più per cambiare, e non è il momento. E sentire fiducia in uno che si è sempre assunto responsabilità, anche sulle scelte. Senza alibi o compromessi”.

- Lavora per i playout o per una salvezza diretta che avrebbe del miracoloso?
“Noi dobbiamo solo pensare a correre. Salvarsi subito sarebbe un qualcosa di eccezionale. In realtà viviamo alla giornata, lo so che è stucchevole sentirselo dire, però è la verità”.

 

Stefano Valenti
Area Comunicazione LNP

 

Si ringrazia l'Ufficio Stampa di Bergamo Basket 14 per le immagini