D'Arcangeli e gli Eroi del Bounty: a Roseto è nata una Stella, destinazione NBA

Germano D’Arcangeli: fossimo negli Stati Uniti, ESPN realizzerebbe un docufilm sulla stagione dei Roseto Sharks.

“Faccio fatica ad aggettivarla. Gratificante. Spero non irripetibile”.

Più che una stagione di pallacanestro, una storia con sfondo la pallacanestro. Ma quante ce ne sono state, dentro una?

“Anche troppe. Con momenti di tilt. Situazioni per me abbastanza abituali, meno per l’atteggiamento convenzionale di Roseto con la sua squadra, comune a tante altre realtà, legato a vittorie e sconfitte. La nostra, in confronto, era una storia di costume, la vita di ragazzi accomunati da una passione”.

Età media 22.9 anni, per issarsi fino a gara5 degli ottavi. Che uno dei due americani gioca per 41 secondi.

“E’ una delle storie, ma non è la nostra. Uno non è giovane: o è forte, o è scarso. Il concetto di giovane viene strumentalizzato: se sbagli, ti perdonano; se fai una cosa buona, vieni esaltato perché sei pure giovane”.

Quale è la ricetta, allora?

“Porsi ai ragazzi chiedendo di fare delle cose. Sono apprendisti e non perché sono giovani. Non sei più giovane a 25 anni. O forse te lo dicono a 40 anni, laddove vige la baronìa. Se ti chiedo di fare una fotocopia, ma la devi saper fare. Se non riesci, ti spiego come si fa. A quel punto devi saperla fare, possibilmente meglio. Cosa conta l’età che hai?”

Chi è allora il giovane, per lei?

“Uno entusiasta, con passione, cui non pesa il dover fare le cose e per quanto tempo e quante volte. E' uno che insegue un sogno e vuole realizzarlo”.

L’anima, e non solo, di questo Roseto Sharks, è la Stella Azzurra Roma. Altrove 8 italiani e due stranieri, da voi 8 italiani di etnie, culture, religioni diverse.

“Il nostro è un quotidiano di continua contaminazione cultuale. Fatta di debolezze, ma anche di grande forza. Per un nero africano un sorriso è una moneta di scambio. In uno spogliatoio italiano se qualcuno ride è possibile che stia prendendo in giro un altro. Gli slavi: duri mentalmente, alcuni te la spiegano, altri sono così disciplinati da farsi del male da soli. La contaminazione è costante e sviluppa cultura dell’altro. Valori di vita compresi”.

Come può un Simone Pierich, anni 37 compiuti, vivere la sua miglior stagione in questo contesto così anomalo?

“Perché si è lasciato contaminare. Non è venuto a spiegare nulla a nessuno, a fare il veterano, quello che vuole la palla solo in quel modo. Oggi il tiro da 3 punti è più importante di una schiacciata. In questo gruppo c’erano schiacciatori fenomenali. Simone ha instillato il carisma del tiratore da 3 punti. Era diventato il loro “Dio delle piccole cose”. Di quel gesto, di quella rotazione di palla, di quel rumore della retina”.

L’idea iniziale.

“Una esigenza di business. Roseto doveva abbattere i costi. La Stella Azzurra mostrare che il suo sistema operativo si poteva applicare alla A2”.

Ha detto business.

“Certo, i giocatori inseguono un business: mettersi in mostra per andare a giocare per soldi buoni. Ma avevamo ruoli molto chiari, nessuno prevaricante sugli altri. Ognuno a scrivere la propria storia”.

Siete unici. Progetto, logistica, sedi di allenamento: si vive a Roma, si gioca in casa a Roseto. Una “casa non casa”.

“Casa è dove stai bene. Partendo da Roma, in treno, abbiamo avuto trasferte molto più comode che da Roseto. Accorciando i tempi. Il concetto di casa, per una squadra che viaggia, è anche questo. Il mondo sta cambiando. Non chiedo più l’autografo, ma un selfie. Non leggo più il giornale, ma un blog. Il concetto di squadra e “casa” non è più vivere la comunità se il tuo obiettivo è essere diverso dal Borgorosso Football Club, dalla passerella, dal farsi vedere. Quello conta sul campo”.

Cagliari, 20 gennaio: sconfitta, ennesima contestazione dei tifosi al seguito, tensione, scontro fisico. Follìa. E’ stato lo spartiacque?

“E’ stato il momento della svolta tra le sconfitte e le vittorie. Qualcosa era successo già prima a Verona, perso dopo 3 supplementari ed applauditi dal pubblico. E la settimana dopo, vincendo a Ferrara di 30 contro una rivale diretta. Conferma che ce ne dovevamo fregare, ma a 17-18 anni certe cose ti entrano sottopelle. I ragazzi erano contestati, vilipesi, perfino aggrediti. Dopo Cagliari, gli oppositori fisici del progetto non sono più venuti. E gli indecisi, quelli che erano condizionati dalla minoranza, non si sono più schierati. L’anno prossimo, alla quarta sconfitta, riemergeranno. Ma nel frattempo i miei ragazzi sono diventati “Gli Eroi del Bounty”. Finalmente apprezzati e sostenuti da un pubblico fatto da famiglie, giovani, bambini”.

Allenerebbe una squadra senior?

“Non so se ne sarei capace. E’ un altro mondo. Come tra futsal e calcio ad undici. Ci sono cose per le quali bisogna essere bravo, io credo di esserlo con i giovani. Avessi allenato la Fortitudo, non lo sarei stato come Antimo”.

Matteo Boniciolli salva Pesaro, la lascia e critica gli americani pop-corn. Quelli fuori dal contesto, culturale e di conseguenza sportivo. Senza generalizzare, ce ne sono sempre di più. O aumenta il rischio di averli.

“Conosco bene Matteo. Viviamo l’epoca della colpevolizzazione, dell’andare contro. Giudicare a tutti i costi. Guardiamo Masterchef e disquisiamo di caramellatura della carne. Senza averla mai cucinata”.

Di conseguenza, l’allenatore.

“In maniera esplosiva, velenosa. E da pochi metri. Fosse possibile cristallizzare il momento in cui mi è stato chiesto di chiamare timeout, ne avremmo avuti 500. Matteo è uno che non tiene nulla, dice ciò che pensa, a volte lo urla. E si espone. Per questo oltre il 50% non è mai d’accordo con lui. Giocatori, dirigenti, il pubblico del basket. Chiedo: vogliamo pensare che il finto buonismo sia una soluzione?”.

Devono giocare gli italiani.

“Quelli forti. Bene, meglio. Ma se non lo sono, ci sarà un motivo”.

Allegri o Adani?

“Allegri. Quando ha detto “…parlano tutti. Troppi”. Io non avrei risposto col palmares, ma invitando Adani a vedere un allenamento ed a farsi un’idea. A Roseto fui contestato perché avevo tolto Person: era appena stato espulso per somma di antisportivi. Se non lo spiega lo speaker, siamo ancora lì. Se a Person metti la maglia della squadra di C Silver di Sora, pensano che abbia appena finito il turno da McDonald’s o da Globo. Nota a margine: sono tifoso della Lazio, Adani quello che spiega oggi lo ha imparato dopo”.

Wesley Person Jr. e con lui Brandon Sherrod: questo fidelizzato, l’altro un rookie. Dentro un progetto agli antipodi con l’idea una squadra professionistica, di ciò che porta uno statunitense a trasferirsi in Europa.

“Con i soldi che avevamo, tecnicamente ci servivano un lungo che rollasse ed un tiratore. Person era a basso costo, col record di triple al college, a Troy, in una conference che conosco bene. Nonché figlio di ex giocatore NBA. Quanto al resto lo avremmo aspettato, come era per gli altri, lavorandoci. Sherrod? Veterano del posto, che doveva accettare la nostra situazione. E’ venuto perché lo affascinava vivere a Roma”.

Alla fine, i due stranieri ideali.

“Sherrod si è trasformato da rollante a uomo da 25+15, letale in post basso da pivot bonsai. Ragazzo intelligente. Person è venuto per mettersi in mostra, al punto che ce lo hanno chiesto quelli che dovevano raddrizzare la stagione. Ideali? Sì. Un Corbett, così forte, avrebbe schiacciato gli altri. Risolvendoci un problema, ma creandone altri”.

Li confermerebbe?

“Come persone certamente, ed il nostro rapporto umano e tecnico non si è esaurito. Ma per la costruzione della nuova squadra si parte dagli italiani”.

Che futuro ha Nicola Akele?

“Entusiasmante, se farà una scelta non solo salariale, continuando a lavorare su se stesso. Sarà uno dei giocatori italiani più importanti dei prossimi dieci anni. Andrà in Serie A, a giocare mi auguro”.

E quello di Paul Eboua?

“Sta facendo workout NBA, tra due settimane lo sapremo. E’ un soldato. Alla Stella la vita è organizzata 24 ore al giorno. Non è per tutti, e non è per chi non è disposto a fare sacrifici. Ed a soffrire. Lui è tutto questo”.

Resterà o si cancellerà dal Draft?

“Difficile dirlo. Certo, mi piacerebbe tornasse per crescere ancora. Ha esattamente le caratteristiche che l’NBA sta cercando: è un 2.04, dinamico, più veloce degli altri, sa tirare da 3, apertura di braccia impressionante. Lo paragono ad un Draymond Green, un Siakam”.

Il prossimo in rampa di lancio?

“Alla Stella Azzurra dico Leo Menalo, che non è un’istigazione. Croato, 17 anni, 2.06, intelligente, può fare di tutto. Poi Yannick Nzosa, congolese, 16 anni, 2.08, corre e salta in maniera mirabile”.

Pozzecco e Sacchetti, capofila della filosofia di allenamento antistress. Drew Crawford viene eletto MVP del massimo campionato e lui riconosce vincente il metodo del c.t. Lei cosa ne pensa?

“In tutte le professioni lo stress va gestito, più che valutato. Ci sono medici che curano il “burnout”. Alla Stella abbiamo due psicologi. Che spiegano come lo stress possa essere anche divertente, e non solo negativo. Ci piacerebbe davvero vivere al Mulino Bianco? In un eterno giardino d’infanzia? Non so. Poi lo stress ce l’ha chi guida un’ambulanza e trasporta una vita da salvare”.

Forse è più corretto parlare di gestione dell’errore. Che c’è comunque, indipendentemente dalla settimana di allenamento o da chi c’è in panchina.

“Concordo. Nel caso dei ragazzi è molto particolare. Si concentrano sull’esecuzione, segnano, applausi. Si assumono responsabilità, ma la perfezione è in quel 20% che non percepiscono di non controllare. Ad esempio il piegamento sulle gambe. Se invece sbagliano non capiscono l’errore, ed allora devi aprire il libro dove si parla di quel 20%”.

Nona giornata, perdete a Imola, record 2-7. Penultimi. Nelle successive venti gare, fanno cinque mesi di campionato, la miglior squadra della A2 è Montegranaro (17-3) con la sua stagione oltre le righe. Poi Treviso (16-4), Bologna (15-5) e Roseto, che viaggia esattamente come Verona e Udine (13-7).

“Alla nona non eravamo noi stessi. Poco dinamici. Sapevamo cosa dovevamo fare, ma non eseguivamo tutti e tutti insieme. Da lì abbiamo iniziato”.

Lei hai un vantaggio: essere allenatore al centro del progetto. Anzi è il motore del progetto.

“Sono un progetto che si presta ad allenare. Poi guido i pulmini e porto i palloni. In Italia ce ne sono tanti e di bravi”.

 Ma tanti suoi colleghi professionisti sono impiccati alle esigenze del risultato.

“C’è chi invidia me ed il progetto. Io potrei invidiare loro le sole tre ore in palestra. Invece da trent’anni mi consumo così, ma il mio lavoro lo intendo così”.

La stessa squadra, l’anno prossimo, che risultato raggiunge?

“Penso lo stesso. Ma la stessa squadra”.

I suoi ragazzi sono pronti ad inserirsi in un contesto diverso? Che poi i diversi siete voi.

“Siamo un istituto professionale, che punta a formare giocatori per farne top di gamma altrove. L’esperienza di una partita, di un campionato, sono strumenti a disposizione del fine, fare il professionista. Eboua può giocare in NBA perché l’NBA vuole proprio ciò che lui sa fare: e noi dobbiamo formarlo per rendere realtà il suo sogno”.

Torniamo al business: ciò che non si vede altrove, nel basket, da voi esiste. E quando accade, ci si scandalizza. Perché l’abitudine è vedere squadre senza logiche di profitto, quindi in perdita. Ma cosa può dare continuità ad un progetto se non una logica di business?

“Non vedo molti Armani in giro. Dobbiamo saper vivere del nostro lavoro. Il mio è allenare e qualcuno deve pagarlo. Sponsorizzare il mio sogno e quello dei ragazzi. Quindi è necessario patrimonializzare, per fare questo devi creare un prodotto e venderlo. Fare qualcosa affinché accada”.

Cosa fanno ora i ragazzi di Roseto, alias Stella Azzurra, o viceversa?

“I ragazzi hanno diritto a 15 giorni di vacanza all’anno. Pur con recuperi attivi. Siamo una scuola aperta 350 giorni. Poi ci sono le finali nazionali, i tornei. Non smettiamo mai. Sottolineo: siamo una scuola, non un lavoro. Altrimenti, staremmo sbagliando tutto”.

 

Stefano Valenti

Area Comunicazione LNP