Il professor Giachetti la spiega ancora: "Giovani, serve fame e conoscenza. E vi manca il campetto"

L’ovazione all’uscita dal campo contro Piacenza? Si vive e ci si allena anche per questo. La gratificazione per aver fatto qualcosa di buono per la squadra nella quale giochi. Ed a 36 anni fa ancora più piacere, pure se da giovane mi immaginavo che sarei stato ancora su un campo da basket. L’unica differenza è che a 20 anni la gamba rispondeva sempre. Adesso va tutelata”.

Jacopo Giachetti il suo basket lo spiega ancora, da due stagioni con la maglia dell’Unieuro Forlì. Potrebbero bastare le cifre, da terzo miglior realizzatore italiano ad Est a 13.5 punti, dietro Santiangeli (15.8) e Giuri (15.5). Ma lui gioca mediamente una decina di minuti in meno degli altri due.

Entra dalla panchina, con un ruolo che un famoso allenatore NBA spiegava così ad un suo non più uomo da quintetto: “Studiati la partita, guarda dove devi mettere le mani e fammela vincere”.
“E’ un ruolo pensato per togliermi un po’ di minuti rispetto all’anno scorso, quando ero sui trentacinque. Le partite sono tante e nei playoff ravvicinate. Poi a me piace finirle e le finisco”.

Dove nasce Jacopo Giachetti?
“Per caso in una clinica di Pisa, ma sono livornese, partito dal Don Bosco, giocavo in palestra e mi ammazzavo ai campetti, quelli di tutta la città”.

Argomento interessante: i ragazzi di oggi ai campetti non ci vanno più. Ed il campetto, anche da professionista, te lo porti sul campo.
“E’ così. Al campetto ci vivevo, imparai lì tante cose, a prendere botte, a non voler mai perdere per non uscire, i tiretti in controtempo, le virate, il passo e tiro. Ricordo che Dan Peterson mi diceva “…si capisce che sei cresciuto nei playground. Che sono una scuola di vita, dove devi saper fare tutto ed essere sempre aggressivo”. Lo prendevo come un complimento. Il campetto me lo porto sul campo ogni domenica. I ragazzi non ci vanno più e si vede”.

Palestra, campetto e palasport. A vedere quali idoli?
“Ai tempi Alessandro Fantozzi era il mito. Ma dall’altra parte c’era Claudio Bonaccorsi, playmaker della squadra nella quale poi proseguì il mio percorso, la Pallacanestro Livorno. Andavo al palasport un’ora e mezzo prima per incrociarli, vedere cosa facevano, come si riscaldavano. C’era curiosità. E con loro i fenomeni che venivano a sfidarli: Djordjevic, Danilovic, Kukoc, Del Negro”.

Il numero uno?
“Dejan Bodiroga. Ho avuto la fortuna di averlo con me in squadra a Roma. Da lui ho capito che un grande campione non è mai tale se non lo è anche fuori dal campo. Sempre pronto per un consiglio, un grandissimo a livello umano. E poi amici”.

Ed il basket internazionale?
“Certo. Spanoulis, Papaloukas, Diamantidis. Studiando cosa facevano in campo, soprattutto come reagivano in determinate situazioni. Professori di basket”.

Il messaggio ai giovani di oggi?
“Fate la stessa cosa, pure se ci sono i Social”.

Lo fanno?
“No. A volte si fa fatica a sentirsi rispondere “con chi giochiamo domenica?”. Ed evitando di addentrarsi in analisi tecniche sugli avversari o formule di campionato”.

Giachetti, chi è il playmaker, oggi?
“E’ un’altra cosa rispetto al passato. Oggi i giocatori si dividono in esterni e lunghi. E spesso i lunghi sono… uno. Qualche volta trovi un’ala forte alta poco più di me. E si gioca cinque fuori”.

Lei si è adeguato o prova a remare contro?
“La pallacanestro è cambiata e ci si deve adeguare. Però resto convinto che quando c’è da vincere serve chi detta i ritmi, innesca i compagni, sa prendere il tiro che conta. Torno su Spanoulis, ma dico anche Sergio Rodriguez. Che da giocatore di rottura al Real Madrid oggi sa giocare anche a metà campo. Ed aggiungo: tutta gente che poi porta leadership in spogliatoio. Molto importante”.

Difesa ed attacco. Da dove si parte?
“Per gli allenatori tutto parte dalla difesa. Se difendo forte, attacco con più fiducia. E’ possibile, ma vale anche il contrario. Coinvolgimi in attacco, ed allora mi spacco la schiena in difesa. Se per tre azioni non vedo palla in attacco, alla quarta difesa mi sposto. Sto estremizzando, ma la chiave è l’equilibrio”.

Dell’Agnello è uno che rispetta e trasmette questa esigenza?
“E’ uno che ne ha viste tante e ne sa. Sa cosa chiedere e come, è un sanguigno, trasmette desiderio di competere”.

Chi è Maurice Watson, al termine del girone di andata?
“Un ragazzo che ha bisogno di tempo, viene da campionati diversi dove gli chiedevano cose diverse. Si sbatte da matti, ha voglia di allenarsi, vuole imparare, compreso l’italiano. Sa passare la palla, è sempre aggressivo. Arriva, ne sono sicuro”.

Pierpaolo Marini è chiamato ad un processo di evoluzione sicuramente complesso sul piano tecnico ma anche mentale. A che punto è?
“E’ un grandissimo talento. Io di gente con la sua facilità di far canestro ne ho vista poca pure in Serie A. Ci mette l’anima, è adrenalinico. Deve crescere di testa, nella gestione di certe situazioni, non farsi portare fuori dalla partita”.

Qual è la vera faccia di questa Unieuro Forlì?
“C’è ancora un grande margine, che è quello del riuscire a fare la domenica tutto quello che mettiamo dentro in palestra. Elevare il livello di aggressività sui 40 minuti, siamo lunghi e tosti, possiamo farlo”.

E la Forlì che vi guarda da fuori che realtà è?
“Una città di basket, che però è consigliabile tenere tranquilla. Ti esalta, ma con la stessa facilità ti uccide”.  

A fine andata, quale immagine di questa stagione di Serie A2?
“Un campionato di grande equilibrio, per questo bello, dove vedi giocare a basket. Si può vincere e perdere con tutti, bello da vivere anche per i tifosi”.

Domenica ci sarà esodo forlivese a Faenza, per la sfida con Imola.
“Proveremo a farli felici, sulla strada della nostra crescita. Abbiamo buttato via 2-3 partite, ce le vogliamo riprendere”.

Siete già qualificati per la Final Eight di Coppa Italia: per lei un quarto di finale con Mantova (2017) ed una finale con Ravenna (2018).
“Corretto. Ora la vorrei vincere”.

Si dice “i giovani giocano poco”: ma è anche colpa dei 36enni come lei.
“Incrocio giovani meno preparati di come lo eravamo noi. Sono indietro a livello tecnico e tattico. E giocando un campionato importante è difficile rubare spazio ad un giocatore esperto. Serve fame, molta”.

La ricetta?
“Tornare a lavorare sui settore giovanili. Che è l’unico ambito dove puoi programmare. Cosa vuoi programmare a livello senior, dove si investe ma se la stagione va male, oppure va bene e ti portano via i giocatori, devi rimettere mano ogni anno ai roster cambiando 6-7 giocatori? Tutti con contratti annuali ed uscite anche a metà stagione? E vale anche per gli allenatori, che se perdono due partite per dar spazio ai giovani vengono cacciati”.

A Forlì che attività c’è a riguardo?
“Ho recentemente parlato con Lorenzo Gandolfi, che è arrivato dalla Stella Azzurra e messo a capo del settore giovanile. Io sono cresciuto in un contesto dove si volevano creare giocatori e non vincere lo scudetto Under 16 con la zona mista. Ed è lo stesso obiettivo di Gandolfi, quindi voglio essere positivo”.

Ultima domanda a chi la Nazionale, da playmaker, l’ha vissuta: via Hackett e Vitali, a chi diamo l’Italia al Preolimpico? Mannion? Moretti?
“Da anni di grandi risultati non ne arrivano, pure con Nazionali che sembravano forti ed ambiziose. Per me è arrivato il momento del ricambio. Non brutale, visto che c’è il Preolimpico. Che però è il livello che i giocatori del futuro devono poter assaggiare per capire cosa manca per poter competere. Molto più utile di un’amichevole Italia-Bulgaria”.

A proposito di competere e di fenomeni, lei incrociò Tony Parker più volte.
“Molte volte, tra selezioni giovanili e senior. A meno di vent’anni aveva già un’intelligenza cestistica da trentenne. Innescare i compagni, rubare palloni, guadagnare falli. Per questo non bastava difendere uno contro uno su di lui, ti costringeva a farlo su tutti. Questa è sempre stata la sua grandezza, pur in un fisico normale”.

Stefano Valenti
Area Comunicazione LNP

Immagini: LNP Foto/Pallacanestro Forlì 2.105/Massimo Nazzaro